Gabriele Terralavoro e Francesco Pesce: cuochi per caso chef per passione

“È un mestiere che fisicamente e mentalmente ti mette alla prova, ogni servizio è come una partita, se sbagli il cliente lo perdi”. Due giovani chef si raccontano

Intervista ai giovani chef Gabriele Terralavoro e Francesco Pesce | cosedellaltrogusto.it

Seduta di fronte a Gabriele Terralavoro e Francesco Pesce ho quasi la sensazione di intervistare due fratelli, due gemelli diversi. Uno loquace e dirompente, l’altro timido e di poche parole ma entrambi complici, decisi, e con la visione lucida di un sogno nello sguardo di entrambi, quello che in base all’esperienza fatta si definirebbe concretezza e volitività ma che prima era solo un’idea. Chef per passione ma nessuno dei due all’inizio del proprio percorso professionale, avrebbe mai immaginato che un mestiere scelto per caso, sarebbe diventato una scelta di vita, una vera e propria passione coltivata anche con un discreto successo. Poi strada facendo, passo dopo passo per questi due giovani ma audaci chef è arrivato anche qualche riconoscimento. Gabriele Terralavoro già chef del Vesta di Tivoli insignito con una stella Michelin e Francesco Pesce chef del ristorante La pace del palato a Roma, si raccontano, partendo da dove tutto è cominciato fino ad arrivare a un concetto: “la memoria del gusto” che a pensarci bene potrebbe anche diventare il tema della prossima edizione di Culinaria.

Dagli esordi a Culinaria, qual è stato il vostro percorso professionale?

G. Terralavoro: Io coltivo questa passione a livello professionale dal 2003, mi ero affacciato al mondo della ristorazione come aiuto cuoco per un breve periodo intorno ai 22/23 anni. Poi più tardi insieme a un mio amico di Tivoli abbiamo deciso di aprire un ristorante, e così ho frequentato il primo corso di cucina promosso da Gambero Rosso. Dopo il corso ho continuato la mia esperienza professionale andando a lavorare a Ferrara da La Capanna di Eraclio, tornato a Roma ho collaborato per 3 anni con Troiani al Convivio decidendo poi di avviarmi da solo. Io adesso cucino pochissimo però, mi concentro tanto su Culinaria, che è una cosa a cui credo, nel senso che penso che possa svilupparsi tantissimo durante l’anno in tantissime alte forme, e poi mi concentro molto sul mio nuovo locale che fa servizio bar e trattoria.

F. Pesce: Sono 10 anni che noi siamo proiettati come famiglia nel mondo della ristorazione. È iniziata come una scommessa, mio padre aveva la passione per questo mondo mentre io avevo detto fin dall’inizio che non mi sarei mai voluto accostare a tutto quello che era la ristorazione, mentre adesso mi ritrovo a gestire il ristorante di famiglia dopo aver fatto anche esperienze significative con chef importanti. Ho iniziato completamente da autodidatta, poi la mia formazione è proseguita in altri ristoranti di prestigio al seguito di chef come Crippa al ristorante Piazza Duomo ad Alba, Salvatore Tassa de Le Colline Ciociare e Kotaro Noda dell’enoteca La Torre. Successivamente ho coltivato una certa passione per il Giappone, più che per imparare a fare il sushi che non appartiene più di tanto alle nostre tradizioni, mi ci sono appassionato soprattutto per la cura dei dettagli, dell’estetica dei piatti e per il taglio del pesce ovviamente, e così sono andato a lavorare per un periodo con Kazunhiko Endo al Doozo di via Palermo a Roma.

In tempi nei quali questo è diventato un mestiere da star televisive chi può definirsi chef?

F. Pesce: La differenziazione prima si faceva soprattutto sul livello culturale, fino a qualche tempo fa lo chef era uno che doveva conoscere più lingue, aveva fatto esperienza all’estero, e sapeva gestire una brigata di dieci persone. Oggi diciamo che con questa massificazione mediatica della cucina, se hai un po’ di passione, un po’ di spirito avventuriero, se sei una persona zelante che riesce in qualche modo a impostare il suo lavoro in cucina passo dopo passo riesci a evolverti, fino ad arrivare a poter comunque gestire una brigata. Soprattutto adesso che c’è questa tendenza a fare questo lavoro, riesci ad avere anche persone preparate che collaborano con te e questo è importante. Poi secondo me la cosa che in cucina ti fa arrivare più in alto è la voglia di fare, la voglia di sperimentare, di leggere e anche la possibilità e la fortuna di avere un ristorante dove poter osare.

G. Terralavoro: Io distinguo il mestiere in due momenti differenti, quello del mestiere più antico del mondo, o meglio, uno dei più antichi, e quello del socialmente riconosciuto. Fino a vent’anni fa non era una professione così glamour, poi le cose sono cambiate gradualmente. In altri Paesi l’evoluzione è avvenuta prima come in Francia ad esempio, in Italia è avvenuta in tempi più recenti.

Secondo voi, il nostro Paese valorizza o trascura una risorsa come la cucina italiana, che dopotutto non è che l’anello finale di una catena economica, o meglio, la sublimazione culinaria di molti prodotti alimentari di alta qualità italiani?

F. Pesce: Ecco, secondo me non quanto dovrebbe. Se le nostre potenzialità fossero state espresse a Copenaghen sarebbe stato diverso.

G. Terralavoro: Fondamentalmente no, anzi penso che l’Italia sia totalmente indietro con i tempi, se pensi che un evento come il nostro, che si svolge nella città più importante d’Italia cioè Roma, una delle più importanti del mondo, se lo devono mettere sulle spalle dei ragazzi come noi. Non c’è la giusta attenzione e non è venuto in mente a tante altre persone che magari hanno anche le possibilità di fare questo, penso francamente che non ci sia contezza delle potenzialità economiche espresse da questo settore. Gli eventi congresso sono una cosa fondamentale per il lavoro oggi come oggi, perché si dà la possibilità a persone dalle professionalità diverse di incontrarsi.

I programmi televisivi che hanno trasformato la figura dello chef in una professione cool cosa hanno cambiato in meglio o in peggio nel vostro lavoro?

F. Pesce: Io sono totalmente contrario a quest’idea televisiva, perché passa un messaggio sbagliato che ho poi ho verificato in alcuni stagisti di alcune scuole romane che vengono e pensano che la cucina sia Masterchef e hanno l’idea che tutti siano già chef. Invece diventare chef significa innanzitutto saper gestire una brigata, saper mantenere la cucina sempre pulita, smontare e rimontare la cucina in un determinato modo, mangiare a una determinata ora, avere una linea già predefinita, avere un certo vestiario ecc.ecc. Quando ho lavorato da Enrico Crippa nonostante ci fossero dodici persone in cucina, il lavoro si svolgeva in maniera ordinata e silenziosa, gli unici rumori che filtravano erano quelli di una cucina all’opera, c’era concentrazione. Al di là dell’aspetto tecnico, comunque per me lo chef è quello che sa trasmettere il proprio pensiero, che a parer mio in cucina è fondamentale perché vuol dire identificare in un piatto la figura di quello chef. Poi ci sono le varie sfaccettature per cui la tecnica, la conoscenza e l’esperienza fanno la differenza.

G. Terralavoro: forse adesso la nota negativa sotto questo punto di vista è che prima c’era un percorso più definito, adesso invece a volte le persone si prendono responsabilità più grandi di loro, magari si mettono a capo di cucine solo perché scimmiottano l’immagine mediatica che passa del mestiere.

Non sono pochi gli chef di successo che hanno cominciato a fare questo lavoro da adulti, ma il successo si coltiva da giovani o per una brillante carriera basta il talento?

F. Pesce: Per me sì, sarebbe opportuno cominciare da giovani. Io lo dico sempre se potessi tornare indietro farei tantissima altra esperienza. Ma devo essere sincero, secondo me le scuole purtroppo insegnano poco, io farei più che altro un percorso all’estero, in Francia ad esempio. Ma anche in Italia, predilezione a parte per il rigore che la scuola francese impartisce. Poi una cosa che la tv principalmente, ma tante volte anche le scuole, fanno passare è un messaggio sbagliato, ossia che il “quanto basta” possa bastare anche in una cucina di livello medio alto.

G. Terralavoro: Se per cominciare presto intendiamo frequentare le scuole allora ti dico di no, se invece si intende che a vent’anni un ragazzo va all’estero a imparare allora sì. Questo è un mestiere che fisicamente e mentalmente ti mette alla prova, ogni servizio è come una partita, se sbagli il cliente lo perdi, devi tenere una concentrazione massima di due ore che può stressare. A questo ci aggiungi la quotidianità della preparazione che comporta tante ore e quindi una certa stanchezza fisica, di fronte a questo tipo di prova purtroppo molti giovani aspiranti chef che arrivano con l’idea di diventare il Carlo Cracco della situazione poi mollano, e il sogno svanisce.

Quanto è importante la creatività e quanto invece occorre seguire le regole?

G. Terralavoro: la creatività viene dopo. Secondo me c’è un percorso per tutto, ci sono delle fondamenta che vanno fatte anche se può succedere di non utilizzarle, ma in ogni caso ci vuole prima disciplina e la disciplina poi genera creatività. È come il lavoro, si inizia dal lavapiatti per far lo chef, non parti mai dal gradino più alto.

F. Pesce: Ci può essere prima la creatività ma poi la creatività la devi incanalare nella perfezione.

Si dice che “siamo quello che mangiamo” il tema di quest’anno di Culinaria invece è: “Ognuno è quello che ricerca”. Ovvero?

F. Pesce: Ricerca sui temi naturali, come il biodinamico, ricerca intesa come salubrità della terra e dunque delle materie prime. Ma ricerca anche intesa come il lavoro svolto durante l’anno dallo chef che vuole arrivare a creare un determinato prodotto finale, ricerca come evoluzione in senso creativo ma soprattutto in senso qualitativo. Il tema di quest’anno abbiamo voluto focalizzarlo proprio sulla ricerca perché è importante, e soprattutto tante volte passa un po’ in secondo piano la ricerca del produttore, chi poi fornisce la materia prima è lo chef, ma se tu non hai la materia prima ottimale, puoi essere bravissimo puoi metterci tutte le tecniche del mondo ma la materia prima è quella che conta. “Ognuno è ciò che ricerca” lo abbiamo pensato proprio per dare spazio non solo agli chef, infatti quest’anno a molti colleghi abbiamo chiesto di non cucinare ma di illustrare il loro percorso, lasciando una testimonianza sul lavoro svolto, di spiegare la propria filosofia del mestiere. Per esempio Anthony Genovese del ristorante Il pagliaccio, che parteciperà a un workshop dal tema “in tempo di crisi c’è ancora passione”, proprio a significare cosa spinge dopo anni e anni di mestiere un professionista ancora ad alzarsi presto tutte le mattine, a rifare la stessa strada passando dal mercato a Campo dei Fiori dal suo fornitore di fiducia, trattando ogni giorno il prezzo della merce, prima di arrivare a via dei Banchi Vecchi dove apre la cucina e comincia una nuova giornata di lavoro.

G. Terralavoro: Come si dice: “se un uomo è quello che mangia uno chef è quello che ricerca”. Inoltre noi mettiamo sul palco insieme agli chef i produttori, la manifestazione nasce proprio per dare il senso di come dietro a dei grandi piatti ci sono anche dei grandissimi produttori, che si sacrificano tanto quanto e forse di più degli chef. Le cose sono concatenate e chi dice il contrario non dice una cosa vera

Quali sono le novità di quest’anno?

F. Pesce: In Culinaria quest’anno ci saranno chef e produttori, e soprattutto abbiamo creato delle aree, che abbiamo dato in gestione completamente gratuita a persone che fanno piccole produzioni biologiche e biodinamiche.

G. Terralavoro: Spazi nei quali possono anche rivendere a dei prezzi per gli avventori e il pubblico la loro materia prima.

Qual è la vostra memoria del gusto?

F. Pesce: Per me le animelle, perché mi ricordano mia nonna che aveva questo macellaio di riferimento dal quale andavamo a fare la spesa spesso insieme. Ogni volta che assaggio le animelle, quando riprovo il classico gusto dell’animella mi riportano direttamente a quando avevo sei,sette anni, a quando mia nonna mi portava con lei al mercato. Ho il ricordo di questi banchi affollati, della confusione, il vociare che attraversavamo prima di arrivare dal nostro macellaio, dove si perpetuava un rito fatto di gestualità,di tradizioni di frasi fatte. E poi me li cucinava semplicemente con burro, l’ alloro e una grattata di limone, ma io mi ricordo questo piatto come se fosse stato il mio piatto gourmet del miglior ristorante sulla faccia della terra. E ogni volta che lo assaggio le animelle mi riportano indietro nel tempo come una scossa.

(Piatto nel menu: conchiglie ripiene di spuma di carciofi animelle e caffè)

G. Terralavoro: Anch’io sono molto legato a mia nonna poiché ci ho anche vissuto con i miei nonni, loro sono molisani e quindi mi ricordo bene tutti i sapori del Molise.Tra questi in particolar modo ci sono i friggitelli, che in Molise si cucinano in vari modi, si fa anche una paprica che tradizionalmente si prepara con i friggitelli secchi, da questo nascono le salsicce dolci. Ma se mi devo ricordare un profumo con il quale mi svegliavo la domenica mattina questo era quello del pollo ruspante e del sugo fresco, che si cominciava a cucinare molto presto per il pranzo domenicale, e invece di fare colazione con il caffèlatte facevo colazione con le fettine di pane con il sugo spalmato sopra. Strepitoso.

  1. Bellissima intervista doppia!

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